Quando le strade non finiscono a Roma

Cristiano Corsini /flickr

14° post. Tutte le strade, si dice, portano a Roma. Anche quella di Mussa Khan e di migliaia di muhajirin afghani per cui l’Italia è soltanto una tappa della tormentata ricerca di una vita migliore. Qui, tra i cantieri che costeggiano la Stazione Ostiense, si interrompe il racconto di un viaggio che non ha fine

L’autobus 60 percorre rumorosamente il selciato sconnesso, mentre filari di platani oscillano sotto le spinte della brezza serale. Roma è in apparenza la stessa da cui sono partito due mesi fa. Uno dopo l’altro, sfilano oltre i vetri i monumenti della città eterna: le Terme di Diocleziano, Piazza Venezia, il Milite ignoto. Via dei Fori Imperiali va a schiantarsi contro la maestosa mole del Colosseo.

L’autobus percorre tre quarti della sua circonferenza, mostrandone finalmente il lato illuminato dal sole al tramonto. Soltanto due giorni fa, in Grecia, in una notte ventosa passata all’aperto, Mussa Khan mi ha chiesto: “com’è il Colosseo, visto da vicino?”. Ed io, “lo vedrai presto, coi tuoi occhi”. Continua a leggere

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La roulette dell’asilo

La Olympic Champion nel porto di Ancona

13° post. Ancona, Italia. Ecco l'”Europa” sognata da Mussa Khan. Anche qui, però, ad accogliere i muhajirin reti metalliche e procedure che rendono la richiesta di asilo una prospettiva sfuggente e lontana

La Olympic Champion punta a nord-ovest, lasciando sulla sua rotta una lunga scia di schiuma gorgogliante. I passeggeri sono in fila per la colazione nella sala ristorante mentre, basse all’orizzonte, macchie tremolanti rivelano i primi tratti della costa italiana.

Quanti migranti ci sono a bordo? Quanti muhajirin si nascondono nei camion stipati nella nave?Osservo la fila afferrare svogliatamente cibo dal self service. A pochi metri da noi, tre livelli più in basso, decine di persone potrebbero nascondersi in spazi angusti, bloccati da ore senza cibo, senza acqua, senza bagno.

La domanda che mi ossessiona è però un’altra: che succede a Mussa Khan? Che responsabilità ho in quanto accaduto ieri notte sul molo? La risposta arriverà solo se e quando Mussa potrà riaccendere il telefono: da ieri notte, dopo l’arresto, è rimasto muto. Continua a leggere

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Destinazione europa

Graffiti a Igoumenitsa

12° post. A Igoumenitsa i muhajirin sognano l’Europa. Non importa che ci siano già, per loro quella che conta comincia al di là dell’Adriatico. Qui anche Mussa Khan, come molti prima di lui, tenta le sue carte con la sorte

“Ci hanno obbligato ad infilare tutte le nostre cose negli zaini già strapieni. Telefono, portafogli, bracciali, anelli, cintura, lacci delle scarpe, occhiali. I poliziotti urlavano come pazzi, ma noi eravamo gli unici del gruppo in grado di capire i loro ordini in inglese. Per chi non rispondeva subito, giovane o anziano, erano schiaffi.” Seduti all’ombra di una quercia alla periferia di Igoumenitsa, Mussa Khan e Jalal raccontano i terribili giorni nel centro di detenzione greco.

Dopo aver affrontato insieme i gorghi del fiume Evros, l’insolita coppia, un curdo iracheno e un afghano nato in Iran, si è consegnata spontaneamente alla polizia ellenica insieme ad altre trenta persone, due settimane fa. Da allora non si sono mai separati. “Hanno usato dei pennarelli indelebili. Hanno scritto un numero sulle nostre mani. Dicevano che era per ritrovare il bagaglio, quando ci avrebbero rilasciati.” L’alone nero è ancora visibile sulla pelle. “In Kurdistan marchiamo le pecore.” Jalal sputa per terra. “In Europa, invece, si marchiano le persone.”

Sabato mattina. Sotto un sole radioso, la Sofoklis Venizelos attracca sul molo di Igoumenitsa. Mi attardo sul ponte di coperta, guardo a lungo la verde insenatura che porta alla baia. Un teatro naturale di montagne precipita ripido in mare, creando un breve tratto di pianura nel quale sorgono la città ed il porto. Su un molo, allineati a spina di pesce sulla banchina, dozzine di camion attendono il momento dell’imbarco. Continua a leggere

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I ragazzi delle reti

 

Patrasso, ai piedi delle recinzioni - panos kouros - flickr

 

11° post. Patrasso. Insieme a migranti di mezzo mondo, anche i muhajirin aspettano il momento buono per scavalcare le reti che delimitano il porto, in un surreale e pericoloso gioco a rimpiattino con la polizia. La posta, però, è alta: una nave verso l’Italia e il sogno chiamato “Europa”

Sdraiato su un fianco, Abdallah guarda il sole sprofondare nell’Adriatico. Una brezza leggera spolvera la terrazza abbandonata dove stanno allineati vecchi materassi. E’ il dormitorio dei migranti algerini. “Quello laggiù”, dice Abdallah indicando l’orizzonte infuocato “non è il mare.” Raccoglie una pagliuzza e la passa tra i denti bianchissimi. “Quella è la tenda di un grande palcoscenico. Se la apri, vedi lo spettacolo più bello del mondo: l’Europa…”

Patrasso. L’eco di sirene gracchianti scandisce arrivi e partenze dei traghetti diretti in Italia. Bestioni d’acciaio compiono lente manovre millimetriche tra i moli, in uno specchio d’acqua ampio mezzo chilometro. Alte recinzioni ornate da rotoli di filo spinato sanciscono il limite invalicabile del porto. Dall’alto della terrazza, gli harragas algerini riescono a controllare tutto questo in un solo colpo d’occhio.

“Guarda laggiù”, dice Abdallah indicando verso nord, nei pressi dell’edificio che ospita la biglietteria. “Quello è il posto degli afghani. Loro scavalcano lì.” Poi indica la zona ai nostri piedi: “qui sotto scavalchiamo noi. Algerini, marocchini, tunisini, palestinesi.” Poi volge lo sguardo a sud. “Quel tratto non l’ho mai visto da vicino. Lì ci sono gli africani. E ancora più in fondo i curdi.” Oltre la rete, unità di polizia portuale in motocicletta pattugliano nervosamente la zona. Continua a leggere

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L’altro lato dell’acropoli

http://www.flickr.com/photos/stolto/2768318521/  Stazione Metro di Omonia, Atene

Omonia, stazione della metro - Kriisliao /flickr

10° post. Atene. Il luogo di nascita della democrazia, cela un lato oscuro e doloroso. Sono le strade e le piazze in cui i muhajirin vivono nell’illegalità, in attesa di un futuro che non arriva. Un buco nero che inghiotte vite e destini e in cui Mussa Khan sembra essersi perduto

Atene. La stazione della metro di Katehaki riversa ondate di persone frettolose nel quartiere ancora assonnato. Tra i passeggeri che affollano i vagoni riconosco pochissimi volti greci: Africa, Asia e Medio Oriente sembrano essersi dati appuntamento su questo treno.

“Gli afghani conoscono bene le difficoltà che li attendono in Europa. I muhajirin che si sono stanziati qui informano costantemente amici e parenti sulle pessime condizioni di vita che offre la Grecia”. Ibrahimi spegne lo schermo su cui scorrono le foto dei miseri accampamenti dei migranti disseminati nel centro di Atene.

“Negli anni passati molti muhajirin , esasperati dalla povertà estrema, hanno accettato i rimpatri volontari finanziati dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Ma al massimo” continua Ibrahimi, “sono rimasti in Afghanistan per qualche settimana, per poi affrontare nuovamente il terribile viaggio verso l’Europa.” Dopo un attimo di pausa, il ragionamento giunge alla scontata conclusione: “Il punto è che per noi afghani non c’è alternativa alla fuga. Vivere nella paura è un prezzo troppo alto da pagare.” Continua a leggere

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Grecia povera, povera Grecia

Pink card, la carta di soggiorno rilasciata ai rifugiati in Grecia

9° post. Vittime di conflitti che non li riguardano. Come quello annoso tra Grecia e Turchia, che ha lasciato un’eredità mortale di mine lungo il confine dell’Evros. Ma anche una volta arrivati nella sospirata terra ellenica, i muhajirin trovano un paese in crisi economica, sempre meno disposto ad offrire loro protezione ed asilo

L’oscurità si rovescia sui colli della Tracia come un’alluvione. Il cono alogeno dei fari sull’asfalto è l’unico appiglio offerto alla vista, privata di ogni riferimento dall’oscurità circostante.

Orestis guida da due ore, procedendo a velocità ridotta per non compromettere il carico. Una lunga fila di camion in sosta prima dello svincolo per Traianopoli attrae la sua attenzione: “Guarda lì. Da una settimana c’è lo sciopero coatto. Non può circolare nulla, solo i beni alimentari.” E continua: “La crisi economica ci sta mangiando vivi. Io trovo ancora lavoro solo perché trasporto birra. E i greci non smetteranno mai di bere birra.” Scopro che l’intero paese è a corto di carburante e che da diversi giorni lunghe file di auto si accalcano ai pochi distributori ancora riforniti.

Komotini. Orestis spegne il motore e accende una sigaretta. “Allora, volevi sapere delle mine antiuomo”. Estrae una mappa dal vano nello sportello e la dispiega sul cruscotto. “Da qui a qui”, dice indicando le località di Nea Vissa e di Kastanias, “era tutto un campo minato”. La striscia di territorio si distende per circa 10 km. “E’ l’unico tratto in cui l’Evros scompare in territorio turco, perciò la Grecia non controlla la riva destra del fiume. Lì i soldati greci e turchi si guardano faccia a faccia, senza acqua di mezzo.” Continua a leggere

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Una storia di fiumi e di confini

Tracia turca, a pochi chilometri dall'Evros

8° post. Turchia, Bulgaria, Grecia. Tre nazioni separate e unite dall’Evros-Meriç-Maritsa, oggi ultima porta per i muhajirin che tentano di approdare in Europa. Mussa Khan, forse, è passato, ma sono sempre più i suoi compagni di viaggio che perdono la vita nei meandri scuri del fiume

L’arrivo del crepuscolo spegne lo stridore metallico delle cicale, lasciando al vento il dominio della vallata. Edirne, Tracia orientale, antica Adrianopoli. E’ il mio ultimo tramonto in Turchia.

Assisto all’avvicendarsi della notte al giorno seduto in una piazzola di sosta della statale E80, che dopo meno di un chilometro va a infilarsi in territorio bulgaro. A ponente, la fila continua di chiome dietro cui precipita il sole rivela un’ansa del fiume Evros. Grecia, Turchia e Bulgaria, tutte in un unico colpo d’occhio.

Un automobilista rallenta. Nei dintorni non c’è nulla che possa attirare un passante. L’uomo, capelli bianchi e rughe impresse sulla fronte, scende dalla macchina. Dall’autoradio accesa echeggia musica turca. Senza dire una parola si avvicina. Non capisco finché non mi è vicino abbastanza da leggere nel suo sguardo: in quel momento vedo negli occhi la stessa espressione indefinita che mi avevano riservato i mercanti di Izmir, scambiandomi per un migrante.

Puntandomi il dito addosso, pronuncia parole che fugano ogni dubbio: “Afghanistan? Pakistan? ”. Resto fermo, basito. L’uomo si sforza di comunicare, ma parla solo in turco. Continua nervosamente a ripetere “Jandarma, Jandarma” indicando il fiume. Fingo di non capire, lui urla più forte: “Jandarma! ”. Poi, all’improvviso, il dito indice si trasforma, mimando una immaginaria pistola. Me la punta contro la testa: “Jandarma, boom!Continua a leggere

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In città

Istklal Caddesi, Istanbul - Guillermo Fdez /flickr

7° post. Istanbul, punto di sutura tra due continenti, Asia ed Europa. Passaggio obbligato per i rifugiati come Mussa Khan, soprattutto ora che le rotte dei muhajirin si sono spostate verso nord. Qui il loro destino incrocia le contraddizioni in bilico tra sviluppo economico e diritti negati

Battuto da un leggero vento mattutino, il Bosforo irrompe nel mio dormiveglia come uno schiocco di dita. L’autobus corre silenzioso su un titanico viadotto ad arcata unica, punto di sutura metallico tra Asia e Europa, mentre il sole all’orizzonte si sforza di completare il suo ovale, annunciando un nuovo giorno.

Istanbul. Costantinopoli. Bisanzio. La città più poliglotta al mondo si rivela fin nella sua toponomastica. Fondata nel settimo secolo avanti Cristo, fu intitolata dai coloni di Megara al loro re Byzas; ad essa l’imperatore Costantino sovrappose nel 330 la sua “Nova Roma”, Costantinou Polis; dodici secoli dopo, la Sublime Porta pose sulla storia il suo attuale sigillo: Istanbul, dal greco “istin polis”. Semplicemente “in città”.

Il mio unico obiettivo qui è informarmi e ripartire. Mussa è passato da poche ore su questo ponte in direzione nord, diretto verso il fiume Evros, l’ultima porta d’Europa. Se, come promesso, si farà vivo appena entrato in Grecia, potrei incontrarlo anche domani. Finalmente. Continua a leggere

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Vicolo cieco

Il quartiere di Basmane, nel centro storico di Izmir

6° post. La via della Seta del terzo millennio trasporta carne umana. Il suo terminale in terra turca è Izmir: qui arrivano i muhajirin che, come Mussa Khan, tentano la via dell’Egeo, per finire troppo spesso in fondo al mare. Per cercarlo, bisogna entrare a Basmane, porta d’Europa degli ultimi

La sagoma informe striscia silenziosamente nell’angolo morto del mio campo visivo, padrona della semioscurità. Tutt’intorno è Basmane, quartiere dei dannati, porta d’Europa degli ultimi.

Prima ancora che riesca a voltarmi, avendone ormai percepito la presenza, l’uomo si palesa in un saluto plateale, quasi grottesco. La mano è già tesa: “Amico! Cercavi me?”.

Izmir, antica Smirne, da 2500 anni capolinea del reticolato polveroso di strade meglio noto come Via della Seta. Piazza di contrattazione più florida del Mediterraneo, da qui le mercanzie provenienti da Cina, India o Arabia prendevano finalmente il mare, dirette ai porti europei.

La storia non conosce ironie. In questi anni è proprio a Basmane, nel centro storico della città, che i migranti, la merce più preziosa del terzo millennio, hanno interrotto il loro viaggio di terra per affrontare i flutti dell’Egeo.

Basse sull’orizzonte, le isole greche da qui si vedono a occhio nudo. L’insperata sponda europea, dopo mesi o anni di viaggio, è canto suadente di sirene fatali: in questo tratto di mare le acque hanno inghiottito migliaia di muhajirin. O harragas, come qualcuno li chiama qui, gli “uomini che bruciano le frontiere”.

Da Basmane si tessono reti di traffici che arrivano fino al Corno d’Africa, al Pakistan, al Senegal. La via della Seta del terzo millennio trasporta carne umana. Continua a leggere

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La Jirga di Gaziantep

La "Jirga di Gaziantep"

5° post. Distanza, viaggio e precarietà non bastano a privare i rifugiati afghani delle proprie radici. Anche a Gaziantep si riunisce la “Jirga”, il consiglio degli anziani, che siedono per affrontare il tema doloroso dell’esilio, ma anche i problemi quotidiani di chi vive di in bilico tra presente amaro e futuro incerto

L’anziano Abdal Halek sfoglia un fascicolo ingiallito. Seduta a semicerchio sul tappeto, l’assemblea dei capifamiglia assiste silenziosa.”Qui c’è tutta la mia vita da quando sono in Turchia”. Moduli, domande, certificati, ritagli, appunti. Le dita nodose si immergono tra le carte, fermandosi su un foglio intestato UNHCR: “E’ di una settimana fa.” Me lo porge. “Mi invitano a fare appello per la terza volta. Significa che non mi riconosco ancora lo status di rifugiato. Dopo sette anni.”

“Ma io”, prosegue il vecchio, “non ho più la forza di aspettare. Per anni ho atteso e sperato. Poi ho provato. Ho mandato due volte i miei figli in Grecia coi trafficanti. Sono stati arrestati, picchiati e rimandati qui. Ho provato a tornare a Teheran, ma l’Iran non è più il paese dove abbiamo vissuto per tanto tempo. Ho tentato con l’UNHCR, ma da Ankara non rispondono più al telefono da mesi.” Poi volge lo sguardo a terra. “D’ora in poi, semplicemente, non farò più nulla.” Continua a leggere

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